di Mauro Graiani
Sistemavano il disco sul piatto e lo mandavano in onda. Lo facevano con le loro manine, seduti di fronte ad un mixer, armati di un solo microfono e un paio di cuffie. Spesso erano mix dall’introduzione interminabile, versioni del singolo di punta dell’album concepite per le discoteche. Venivano quasi sempre dagli States grazie a quel mondo di piccoli spacciatori di musica che erano i negozi di importazione. Per questo erano “puzzolenti” (funky); sapevano di stradine del Bronx o del pollo fritto di Philadelphia; avevano dentro il rumore della Grande Mela o l’R&b della profonda Alabama. Venivano da quella California dei surf che avevano sognato i nostri fratelli maggiori e che noi avremmo continuato a sognare. Prima che il pezzo iniziasse a cantare c’erano quattro giri di batteria, poi quattro di basso e dopo tutta la ritmica entravano i fiati (veri) e tutto questo durava minuti, decine di minuti a volte. Quelle autostrada musicale erano, per i veri Dj, il luogo su cui cucire parole che descrivevano mondi irraggiungibili, galassie lontane su cui portare chi era sintonizzato in un viaggio in quattro quarti rigorosamente stereo, fatto di invenzione, improvvisazione e tanta fantasia. Erano quei dj, le cui note vocali pescavano nel sottosuolo delle frequenze, caricati i bassi dell’equalizzazione a palla, che arrotavano il nome dei gruppi facendoli diventare qualcosa di sacro. Earth Wind & Fire, Kool & The Gang, TSOP, erano astronavi su cui salire per viaggiare nel tempo e nello spazio e loro, i dj, erano i piloti. C’era chi raccontava fatti personali, chi biografie impossibili di grandi Jazzisti, chi descriveva l’America nera come se ci avesse vissuto fino a qualche istante prima e non se ne fosse mai andato. In realtà rubacchiavano qua è là le informazioni da settimanali musicali, così come le classifiche da Billboard.Sentivano su di loro l’ascolto, una strana forma di partecipazione passiva di chi aveva acceso la radio a casa, in negozio, in macchina. Era come se attraverso la loro voce e le canzoni che trasmettevano fossero in grado smaterializzarsi e propagarsi nell’etere come se non fossero più uomini, ma idee.La notte sapevano essere malinconici al punto giusto, di giorno scatenavano ormoni e jingle. Sapevano tenere compagnia. Spesso avevano soprannomi e nomi d’arte e arrivavano in radio cinque minuti prima di andare in onda. Entravano nelle sale dischi dove, da centinaia di scaffali che arrivavano al soffitto, prendevano al volo dischi che riconoscevano dai colori delle copertine e s’infilavano in trasmissione. Non avevano scalette scritte, figuriamoci una playlist generata da un computer. A volte cambiavano il disco da mandare in onda all’ultimo istante; perché sentivano che era il momento di Joe Cocker, perché avevano ricevuto una richiesta, o perché gli serviva un disco più lungo per andare in bagno. Erano capaci di raccontarti cose per un quarto d’ora e poi sparire per una mezzora, ma quando li sentivi, ovunque tu fossi, sapevi che ti avrebbero sorpreso. Sempre. Con una frase ad effetto, con un disco nuovo, con un pensiero improvviso. Erano romantici e innamorati della radio, quattro locali insonorizzati dai contenitori per uova nei bassi fondi della città, dove un appartamento con un bagno risicato e cieco costava al mese poco più che un paio di giri sul ottovolante con le prostitute della zona. Ma ne avevano di cose da dire, in pochi avevano testi scritti, tutti però s’informavano; leggevano riviste, libri, ascoltavano tutto ciò che era possibile ascoltare perché, quando toccava a loro, volevano essere i migliori. E talvolta lo erano. Decidevano loro, quando era il momento di far entrare un disco, non una macchina. Erano i pionieri di questo mondo ormai omologato della radio, dove tutte cercano di differenziarsi con toni diversi ma tutte finiscono per suonare la stessa musica, allo stesso modo,perché gestite da un algoritmo. Niente a che vedere con loro, i Dj quelli veri. Io li ho conosciuti, io ci ho lavorato in quelle radio che libere lo erano davvero e poi in quelle nazionali, quelle che sono andate via via omologandosi. Le prime erano libere di parlare di ciò che volevano, di passare la musica che volevano, di essere ciò che volevano. E la musica “puzzolente” che trasmettevano faceva muovere tutto; pensieri parole e idee. Era sufficiente pronunciarne il nome per cominciare a ballare.Funky, basta la parola.